2 – Gli anni di piombo e il terrorismo nelle fabbriche

1 – La nascita degli opposti estremismi

Gli anni di piombo e il terrorismo nelle fabbriche

Dal 1974 iniziò la stagione degli “anni di piombo”. Alla Facoltà di Sociologia dell’Università di Trento erano già cominciati i primi discorsi sulla violenza e sul modo organizzato di praticarla con atti di prevaricazione contro docenti e studenti. Il nucleo storico delle brigate rosse era composto da Renato Curcio, Giorgio Semeria, Mara Cagol, Maurizio Ferrari, Fabrizio Pelli, Alfredo Bonavita e si chiamava “comune numero uno”. Le brigate rosse avevano gradualmente alzato il tiro. Non più cortei, slogan rivoluzionari e scritte sui muri con frasi terribili di minacce di morte, ma pianificazione di azioni militari. S’inaugurarono, dapprima, gli anni delle rapine alle banche e ai furgoni di portavalori, dei sequestri di persone e degli attentati; successivamente furono lucidamente pianificati gli assassini politici con clamorosi e sanguinosi agguati, per passare ad individuare altri cittadini indifesi, bersagli mirati della lotta armata.

Per i brigatisti e i gruppi eversivi rossi, i grandi nemici erano la Democrazia Cristiana, rappresentata, soprattutto, dalla corrente di sinistra capeggiata dall’on. Aldo Moro, considerato il cavallo di Troia dei comunisti all’interno dello Stato Democratico e il Partito Comunista Italiano di Enrico Berlinguer, considerato il grande voltagabbana che aveva tradito la Resistenza e abbindolato la base rivoluzionaria.

Nel 1977 le brigate rosse si prepararono a compiere il definitivo salto di qualità rivoluzionaria nelle università, nelle fabbriche, nei quartieri. All’epoca, il sindacato non aveva ancora compreso la sfida mortale del terrorismo e faticava ad assumere posizioni nette, dopo i delitti delle organizzazioni che praticavano la lotta armata, anche perché, si diceva, le vittime erano “democristiane” e bellamente se ne fregavano.

Per oltre due anni (dal 1975 al 1976) anche l’organo del Partito Comunista Italiano “L’Unità” scriveva articoli su “le sedicenti o cosiddette brigate rosse” e non ammetteva l’album di famiglia. Molti dirigenti sindacali e dirigenti di questo partito non si erano ancora resi conto della complessità e della espansione del fenomeno brigatista e di capire, in tempo, che esso era frutto di una deviazione della loro ideologia marxista – comunista.

Sino a tutto il 1977, i Sindacati dei lavoratori non attuarono forme di vigilanza e di mobilitazione democratica; anzi, di fronte alla gravità e all’entità dell’estremismo, sottovalutarono il problema e ci furono debolezze, accompagnate da contigue fasce di solidarietà e di colpevole tolleranza o appoggio, tanto che molti sindacalisti delle fabbriche consideravano delatori quegli operai che denunciavano gli attentatori e sabotatori brigatisti alla polizia.

In quel periodo, il terrorismo cercava, abilmente, di collegarsi con un’area politica che andava oltre i gruppi, gli autonomi, le zone d’ambiguità sindacale ed estendeva la sua organizzazione informativa, logistica e militare, suscitando simpatie in gruppi di intellettuali, che dichiaravano la loro neutralità: “né con lo Stato, né con le brigate rosse”.

Si trattava di un’equidistanza che di fatto portava a simpatizzare per i brigatisti.

Capitò anche che alcuni quadri sindacali di collocazione eversiva fossero inseriti subdolamente nei consigli di fabbrica, perché vi erano persone che premevano per fare entrare nei consigli stessi elementi sospetti di legami con i terroristi. Si pensi all’infiltrazioni avvenute nel settore dei metalmeccanici.

Non esistevano, tuttavia, equivoci sulla natura eversiva del terrorismo di sinistra, ch’era diverso da quello fascista.

Non risultava, pertanto, credibile l’ipotesi di “una centrale unica del terrorismo rosso e nero in funzione antidemocratica e anticomunista”.

Le uccisioni, nel 1976, del procuratore generale di Genova Francesco Coco assieme agli agenti di scorta Giovanni Saponara e Antioco Deiana, rivendicate dalle brigate rosse e l’assassinio del sostituto procuratore di Roma Vittorio Occorsio, rivendicato dai neofascisti di Ordine Nuovo, non erano sufficienti a dimostrare che le operazioni di segno opposto provenissero da una centrale unica.

Dopo l’uccisione del 16/11/1977, da parte delle brigate rosse, di Carlo Casalegno, vicedirettore della Stampa di Torino e la gambizzazione di Carlo Castellano, dirigente dell’Ansaldo a Genova e iscritto al PCI, i dirigenti sindacali iniziarono ad avvertire il grave pericolo della progressione terroristica, che corrodeva la classe operaia all’interno delle fabbriche e che si contrapponeva al loro potere tradizionale in fabbrica attraverso i gruppi di “Autonomia operaia”.

Negli anni 1977/78 si scoprì che nelle fabbriche delle città operaie (Torino, Milano, Genova, Roma, Napoli, Reggio Calabria ed altre) proliferava la violenza diffusa e si annidava uno dei principali pericoli per la tenuta democratica, fatta d’infiltrazione delle formazioni armate tra gli operai con la costituzione di molti gruppi di fuoco e di un nutritissimo numero di sigle combattenti. All’epoca l’apparato informativo del P.C.I., guidato dall’on. Ugo Pecchioli, raccoglieva informazioni sugli estremisti di destra, ma anche sulle formazioni clandestine di sinistra, che non venivano trasmesse alle autorità competenti.

La politica del “compromesso storico”, che vide la nascita del governo Andreotti, con l’appoggio esterno del PCI, fu inaugurata con la “l’attacco al cuore dello Stato e geometrica potenza di fuoco delle brigate rosse”. Il 16 marzo del 1978, in via Fani a Roma, fu massacrata la scorta dell’on. Aldo Moro che fu sequestrato e tenuto prigioniero in covi brigatisti. Il suo cadavere fu restituito in un’auto parcheggiata (la Renault rossa), 56 giorni dopo, in via Caetani, nel centro di Roma.

Era il fatidico 9 Maggio! Il corpo atrocemente assassinato di Aldo Moro, come in un’icona caravaggesca, giaceva costretto nel bagagliaio della macchina, con la mano sul petto e la testa reclinata.

Raggiunto l’obiettivo dell’uccisione di Moro, l’organizzazione terroristica intensificò la lotta armata con attentati e assassinii seguendo un modello di criminalità comune. Caddero così, sotto il piombo delle colonne brigatiste non solo politici nelle più grandi città italiane (Milano, Roma, Genova, Torino, Firenze, Padova, Venezia, Napoli) ma anche magistrati, docenti universitari, giornalisti, dirigenti ospedalieri, esponenti delle forze dell’ordine (polizia e carabinieri), guardie carcerarie, dirigenti di fabbriche, sindacalisti e, persino, cittadini comuni.

La Lombardia e Milano, il Piemonte e Torino furono le regioni che più pagarono il loro tributo di sangue con l’uccisione di 97 persone, il ferimento di 107 cittadini inermi. L’Italia ebbe complessivamente 489 morti, 5.691 feriti. E oltre mille attentati. Si respirava, allora, un clima cupo, aspro e violento.

Dopo le aggressioni al comizio di Luciano Lama, Segretario Generale della C.G.I.L, con la cacciata dall’Università di Roma e dopo il rapimento e il martirio dell’on. Aldo Moro, in uno sforzo d’unità nazionale fra tutte le forze politiche, iniziò la parabola discendente del terrorismo. Si consolidò, altresì, il rapporto classe operaia-democrazia ed, alzata la guardia, si ebbe la consapevolezza che il terrorismo era ed è, tuttora, un’arma contro la classe operaia.

La politica della fermezza e del non cedimento ai ricatti brigatisti, durante il sequestro Moro, si accentuò e fu accompagnata da numerose manifestazioni operaie, che si tennero in Italia. Imponente fu quella tenutasi a Genova dopo l’omicidio del sindacalista Guido Rossa, avvenuto il 24 gennaio 1979.

Furono questi i periodi decisivi in cui i lavoratori respinsero tenacemente l’abbandono del terreno democratico e la manovra scissionistica brigatista all’interno delle fabbriche. La scelta della fermezza o della non trattativa si rivelò salutare per la democrazia italiana, perché spinse alla condanna, “senza se e senza ma”, dei responsabili degli attentati terroristici, esigendo la loro punizione esemplare.

Non più “compagni che sbagliano”, ma assassini eversivi, nemici della classe operaia e che minano il fondamento dello Stato costituzionale e le sue articolazioni democratiche, per stravolgere la democrazia scaturita dalla Resistenza, per indebolire e confiscare i diritti.

Da tale convinzione granitica, sulla follia rivoluzionaria e omicida, nacque la politica di “Solidarietà e unità nazionale” e l’impegno alla mobilitazione di massa, che condusse alla sconfitta del terrorismo da parte degli stessi lavoratori.

Le forze politiche che maggiormente vi si opposero furono la Democrazia cristiana di Benigno Zaccagnini e il Partito comunista di Enrico Berlinguer, sorretti compattamente dall’intera società italiana.

Mio malgrado, sono stato testimone di questa stagione del terrorismo con una tragica esperienza personale è molti eventi restano incancellabili nella mia memoria.

Durante quegli anni di paura il circolo culturale Carlo Perini proseguì a programmare le sue iniziative per affermare i valori di libertà, di democrazia, di dibattito civile e democratico.

Il pubblico, sia pure intimidito da scontri verbali e talvolta anche fisici, seguitava coraggiosamente a partecipare alle nostre manifestazioni, grazie ai grandi personaggi del mondo politico e culturale, che facevano a gara per parlare ai cittadini della periferia milanese.

Ci furono anche tristi serate di dibattito in cui giovani provocatori dei gruppuscoli extraparlamentari, fiancheggiatori dei terroristi, presero il sopravvento. La prevaricazione culminò con l’interruzione di alcune conferenze, a seguito di arroganti minacce all’incolumità fi sica dei partecipanti.

Si ricorda che nella sede, del Centro Sociale di via Val Trompia, ove operava il “Perini” da quasi quindici anni, aveva trovato accoglienza anche il gruppo dell’autonomia operaia dell’Alfa Romeo di Arese, che all’epoca contava circa 20.000 occupati. Oltre un migliaio di lavoratori risiedevano nel quartiere di Quarto Oggiaro – Vialba.

 

3 – Il terrorismo nelle fabbriche milanesi e il caso dell’Alfa Romeo