La cultura come prodotto

2 – La cultura come risorsa 

LA CULTURA COME PRODOTTO

Dire che la cultura sia una risorsa per l’uomo non comporta alcun problema. Anzi, potremmo quasi sostenere che si tratti di un’affermazione talmente ovvia da non richiedere alcun chiarimento o spiegazione. Questo perché, con ogni probabilità, tale valenza le è riconosciuta, all’unanimità, come propria e legittima, quasi facesse parte del suo dna. Le cose si complicano quando iniziamo invece a riflettere di cultura in termini di “prodotto”. E’ assolutamente probabile che il termine “prodotto” richiami alla nostra mente altri suoi sinonimi, quali, ad esempio, “artefatto” e “bene di consumo”. Insomma, i termini prodotto e produzione fanno ormai parte, per il senso comune, del linguaggio economico. Così accade che, accostati al termine cultura, creino, presso alcune fasce dell’opinione pubblica, inquietanti ossimori.
Questo avviene, più o meno, da quando la Scuola di Francoforte introdusse il concetto di “industria culturale” (Horkheimer-Adorno, 1980). Con essa i Francofortesi volevano indicare il risultato dell’indebita appropriazione, da parte del capitalismo, della sfera culturale e la sua conseguente mercificazione. Appropriazione assai deleteria per la cultura, che da quel momento avrebbe perso tutta la sua sacralità ed aura, divenendo cultura di massa e bene di consumo, alla stregua di ogni altro prodotto dell’industria tradizionale. La Scuola di Francoforte, in altri termini, ebbe il merito di richiamare l’attenzione su un importante fenomeno che da allora avrebbe caratterizzato le società occidentali, vale a dire il consolidarsi di una nuova industria, quella culturale, appunto, dedita alla produzione di particolari merci, vale a dire di merci simboliche. Essa tuttavia descrisse tale avvento con toni apocalittici, preoccupata che una volta trasformata in bene di consumo, la cultura avrebbe definitivamente perso la propria autonomia, la propria sacralità e con esse la sua funzione critica nei confronti della società.
Da “pensiero negativo” in grado di criticare e sovvertire il sistema e lo status quo, la cultura sarebbe divenuta, in breve tempo, strategia di legittimazione e ideologia dell’ordine vigente, strumento per la fascinazione delle masse. I Francofortesi coniarono così il concetto di “cultura di massa” per distinguere le produzioni mediatiche e dell’industria culturale dalla cultura alta, la cultura con la “c” maiuscola, idealisticamente concepita come luogo sacro, come tempio in cui vengono a depositarsi le vestigia dell’umanità, come l’insieme di ciò che di più grande è stato scritto e pensato dall’uomo. I Francofortesi pensavano e scrivevano in un’epoca in cui era ancora possibile percepire la differenza tra la cultura di massa e la cultura alta. Il loro pensiero può anzi essere letto come l’estremo tentativo di aggrapparsi alla “cultura alta”, nel tentativo di difenderla dall’avanzare dei media e dell’industria culturale.
Oggi, invece, siamo perfettamente consci che non tutta, ma gran parte della nostra conoscenza è veicolata dai mezzi di comunicazione, che è ormai impossibile distinguere tra merci e beni culturali, perché le prime hanno incorporato in sé, come valore aggiunto, una ragguardevole dose di contenuto simbolico e comunicativo e perché i secondi sono ormai gestiti e promossi secondo i criteri del marketing e della comunicazione di impresa (basti pensare al fenomeno delle sponsorizzazioni di eventi culturali, restauri di opere architettoniche ed artistiche ecc…). Lo spirito apocalittico dei Francofortesi, purtroppo, sopravvive ancora. L’idea che esista una cultura più autentica, più degna di questo nome e che la si possa trovare solo al di fuori del circuito dei media e dell’industria culturale è ancora diffusa presso alcuni strati della società civile. Oggi, tuttavia, tale distinzione appare sempre meno probabile e sempre meno feconda anche da un punto di vista euristico. Persino in ambito musicale troviamo band nate e cresciute nell’underground metropolitano, che incidono i propri dischi per le grandi major discografiche.
L’industria culturale è pronta a incorporare a velocità incredibile stili e produzioni delle avanguardie, così come le avanguardie, capitalizzando la fondamentale lezione di Andy Warhol, hanno imparato a giocare ed ironizzare con i linguaggi e le icone della cultura di massa. In conclusione, quindi, non possiamo non riconoscere alla cultura, a tutta la cultura, la valenza di prodotto. L’espressione “prodotto culturale” (Colombo-Eugeni, 2001) non deve più designare una merce simbolica che, mi si passi l’espressione, fa solo finta di essere cultura; non deve più essere utilizzata in senso dispregiativo e in opposizione ad un senso più pieno e più aulico del termine “cultura”. Naturalmente con ciò non si vuole affatto rimuovere il problema della qualità di un bene culturale che può essere, ovviamente, maggiore o minore. Si vuole solo sottolineare che la qualità, la fattura di un bene culturale non dipende solo dalle sue modalità di produzione.
Questo non significa affatto disconoscere un altro ordine di problemi, ovvero il fatto che esistano associazioni, club, circoli che pur offrendo proposte e prodotti culturali di rilevanza e spessore, non riescano ad imporsi alla pubblica attenzione, perché collocati al di fuori del circuito dei media e dell’industria culturale. In questo caso dovrebbero essere le istituzioni pubbliche a svolgere un lavoro di scouting, di monitoraggio dell’offerta culturale meno “appariscente”, individuandone i principali attori, dando ad essi la giusta e meritata visibilità ed elargendo i finanziamenti necessari allo svolgimento della propria missione. Dimenticarsi degli “artigiani” della cultura senza tutelarli dalla “grande industria” significa perdere voci, correre il rischio del “pensiero unico”.

4 -La cultura come consapevolezza